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Relazione
di Luciana Breggia

Sommario:

  • 1. Premessa.
  • 2. Il principio di effettività: dalla fattispecie agli interessi.
  • 3. Dai diritti agli interessi e ai bisogni: dentro e fuori la giurisdizione.
  • 4. Mediazione effettiva o mediazione ‘vera’?
  • 5. Effettività della giurisdizione: risorse e dialogo processuale.
    5.1 L’ufficio per il processo.
    5.2 Dialogo processuale e anticipazione del giudizio.
  • 6. L’udienza davvero civile: un luogo dove si parla e si ascolta.
  • 7. Le precondizioni materiali come base per l’effettività.
  • 8. La giurisdizione riflessiva.

 

1. Premessa.

Tempo di bilanci per gli Osservatori sulla giustizia civile che celebrano un decennale, non certo della loro nascita, che risale a metà degli anni novanta, bensì delle Assemblee annuali: la prima si svolse a Firenze nel 2006 e da allora sono state rispettate scadenze, è stato seguito un metodo, pur nell’ambito di una rete informale e policentrica. E’ utile dunque ripercorrere il cammino svolto, nel prefigurare il futuro. Mai come in questo periodo ci pare di essere in un labirinto: giriamo e ci affanniamo per cercare la via senza riuscirvi. Se si potessero però vedere le cose da altri punti di vista, ad esempio salendo su una piccola altura, il labirinto rivelerebbe subito la sua struttura ingannevole e sarebbe molto più facile trovare l’uscita. Mi piace pensare a questa Assemblea come l’altura di cui abbiamo bisogno per vedere le cose da più punti di vista, permettere allo sguardo di spaziare lontano, soprattutto nel tempo.

 

2. Il principio di effettività: dalla fattispecie agli interessi.

Vorrei utilizzare come fil rouge dell’assemblea il principio di effettività. Prima di tutto quale effettività delle tutele, crocevia tra diritto sostanziale e diritto processuale, un crocevia che spesso dimentichiamo, costretti dalla bulimia del legislatore processuale a chinarci sulle continue riforme del rito. Ma è un crocevia dove dobbiamo tornare, sostare e alzare il capo: l’impegno verso la realizzazione di un processo celere e giusto, deve coniugarsi a quello della promozione di tutele, sul piano sostanziale, effettive ed adeguate: qui l’interesse viene dalla sempre maggiore rilevanza di diritti fondamentali e princìpi nella ricostruzione/revisione degli istituti; e, per altro verso, dalla necessità di rivedere settori del diritto sostanziale non adeguati alle nuove esigenze2 (ad es. il diritto di famiglia, ancorato spesso a prospettive ‘punitive’ più che generative di nuovi rapporti e assetti).
Il tema è antico e conosce un nuovo slancio anche per effetto delle fonti europee e del dialogo tra le corti europee: gli artt. 24, 3 cost, gli articoli 6 e 13 della CEDU, 47 carta di Nizza, impongono agli stati di predisporre un rimedio effettivo, dunque efficace e proporzionato, con cui i soggetti possano far valere in giudizio la lesione del diritto. In una prospettiva interna, non basta dunque la garanzia di accesso alle Corti, (art. 24 cost.), ma occorre verificare quale sia il risultato conseguibile dall’attore che deve essere giuridicamente idoneo a consentire la riparazione: non solo diritto di accesso al giudice, ma rimedio adeguato sul piano sostanziale a trasfondere nella realtà quelli che sono enunciati normativi (nella prospettiva di Chiovenda: dare soddisfazione piena, puntuale e integrale- oltre che tempestiva – dell’interesse protetto dalla norma sostanziale e leso dal comportamento o dall’atto contestato in giudizio).
La dicotomia diritti/interessi, spesso evocata per tranciare un confine tra giurisdizione e metodi a-giurisdizionali di composizione dei conflitti, non si rivela appropriata. Anche il diritto oggi, quando si pone il problema di dare una tutela effettiva, ricerca la soddisfazione dell’interesse materializzato non espressamente previsto dalla norma: il prof. Di Majo3 richiama il pensiero degli studiosi tedeschi e in particolare del Prof. Canaris a proposito dell’indirizzo materializzante (Materialisierung) nell’approccio di istituti giuridici e ne fa criterio di lettura di novità normative e giurisprudenziali. Sul piano normativo, ad esempio, ricorda il c. d. recesso di pentimento nei contratti con il consumatore (artt. 64 s. cod. cons.), istituto che mira a garantire l’effettiva libertà decisionale di una parte, con un rimedio destinato ad affermarsi contro una regola di fattispecie. Anche l’interpretazione dei giuristi cerca un rimedio, uno strumento di tutela che la fattispecie non ha saputo o voluto dare agli interessi materializzati non previsti espressamente dalla norma avvalendosi di quelli che di Majo definisce mezzi extra ordinem4, come, per fare un esempio, le tecniche di disapplicazione, l’interpretazione conforme – alla costituzione, alle fonti comunitarie etc. – , oltre che dell’impiego di clausole generali (si pensi alla buona fede) e di princìpi. L’effettività è dunque un traguardo che non si raggiunge attraverso altre norme. E’ una riflessione affascinante del diritto contemporaneo che parte dalla casistica, ancora in cerca di una sistematizzazione: gli esempi sarebbero innumerevoli, ma basti ricordare le decisioni che utilizzano il concetto della causa in concreto nei contratti, per dare rilevanza all’interesse che le parti perseguono in quel caso concreto. Un’applicazione recente è nella sentenza delle Sezioni Unite che riconosce validità al c.d. preliminare di preliminare: il giudice qui va a scandagliare le varie situazioni in cui può essere meritevole di tutela un programma di interessi realizzato gradualmente5. Altre pronunce attengono al controllo giudiziale sul contratto (la Corte costituzionale – con la sentenza n. 77/20146 – dice che il giudice deve trovare la soluzione per la clausola sulla caparra confirmatoria eccessivamente gravosa, considerandola nulla, applicando direttamente il principio dell’art. 2 cost.), alle nullità negoziali, oggetto di una interpretazione funzionalizzante della giurisprudenza, una sinergia sostanziale e processuale nell’applicazione del rimedio volto a dare effettività alla tutela, ripensando a quella invalidante, che elimina gli effetti contrattuali7. E’ un piano mobile di tutela, che consente di avere un apparato elastico, corrispondente a quelli che sono i bisogni emergenti dalle diverse situazioni secondo l’elasticità propria dei remedies di common law8.
Il nuovo diritto sfalda l’organizzazione delle fonti tradizionali per far posto ad un sistema di fonti policentrico; per effetto della disapplicazione, si inseriscono nel nostro ordinamento norme eurounitarie e non solo, anche princìpi e diritti fondamentali. Aumentano i richiami alla Cedu da parte dei giudici interni (basti leggere la relazione annuale Cedu sull’ applicazione della Carta) e non è un caso che un Gruppo di osservatori sia partito alla volta di Strasburgo per un seminario presso la Corte EDU.
Riecheggiano, ancora una volta, le parole dello storico Paolo Grossi, quando ci avverte che il diritto come dimensione formale sovraordinata rispetto ai fatti ha ceduto ormai alla riscoperta della fattualità del diritto. Il superamento del sistema tradizionale delle fonti è collegato a questa riscoperta: il rimedio è la possibilità di trovare uno strumento di tutela in relazione ad un interesse materiale che la fattispecie non ha indicato.
Si torna al grande tema del tentativo di superare il carattere procedurale della giustizia a cui accennammo all’Assemblea di Bologna del 20109: l’attenzione agli interessi e ai fatti impone spesso il superamento della fattispecie e della procedura10 attraverso quelle che Rodolfo Sacco chiama << iniezioni di diritto non scritto>>, di diritto muto11: di fronte alla complessità del sistema, il diritto parlato autoritativo entra in contatto con reticolati di norme latenti, <> 12 che permettono l’intermediazione fra forme e norme da un lato e valori e bisogni dall’altro.
Il problema che si pone allora è come il giudice in questa opera di intermediazione seleziona il valore da proteggere: si fa legislatore? In realtà, giudici e avvocati sono continuamente costretti da un tessuto normativo da un lato lacunoso e dall’altro complesso ad operazioni di bilanciamento assiologico in ragione delle esigenze del caso13. Il caso obbliga la regola a rivedere se stessa14. Questo è il tema tormentato della certezza del diritto e dell’equilibrio tra corti e legislatore, del potenziale conflitto tra decisione giusta e separazione dei poteri. Il tema resta aperto oggetto del cantiere della ricerca attuale su come rendere giustizia nel caso di specie senza perdere di vista le esigenze di coerenza e uniformità15: sin d’ora possiamo sottolineare quantomeno la necessità di approfondire l’attuale riflessione sulla motivazione dei provvedimenti (di cui a volte si invoca addirittura la scomparsa), perché oggi la certezza del diritto passa da lì: affidare a passaggi argomentativi espliciti la ricerca degli interpreti ed evitare derive arbitrarie. Chi vede nel dialogo fra giudici appartenenti a livelli diversi, dialogo oggi scosso da recenti arresti della Consulta16 una concretizzazione del principio del checks and balances, sottolinea la necessità di rendere riconoscibile e trasparente il percorso argomentativo seguito dal giudice che, rendendo pubbliche le scelte di seguire o di non seguire una certa interpretazione, si espone, così, ad un vero e proprio controllo17 e permette la verifica dei precedenti, un’operazione nuova per noi, ma ineludibile.
Limitandomi al filo che vorrei seguire, quello che mi preme ora mettere in luce è come oggi anche il diritto ripensi se stesso, cerchi di recuperare flessibilità per aderire ai bisogni che emergono dalla realtà e valorizzare l’autonomia privata e in qualche modo, a volte, confessi la sua insufficienza.

 

3. Dai diritti agli interessi e ai bisogni, dentro e fuori la giurisdizione.

Se è vero che anche il diritto va alla ricerca di rimedi effettivi, tuttavia occorre precisare che presuppone pur sempre l’esistenza di un interesse giuridicamente protetto. La ricerca non riguarda l’an della protezione, ma solo le modalità di tutela più adeguata, in presenza di diritti fondamentali e di nuovi beni che reclamano protezione18. L’attenzione ai rimedi tende ad accorciare, per così dire le distanze del mezzo di tutela rispetto all’interesse e o al bene che si intende tutelare19 . Questo è un punto in comune con i sistemi di soluzione dei conflitti diversi dal processo, che nella finalità del legislatore europeo servono a garantire proprio l’effettività dell’accesso alla giustizia, offrendo soluzioni flessibili e adeguate rispetto agli interessi da soddisfare. Ma i sistemi non giurisdizionali si disancorano dall’interesse riconosciuto dall’ordinamento, ci si svincola anche dall’an della protezione, per offrire, in certi campi, la tutela di interessi che la fattispecie giuridica non assicurerebbe nel caso concreto. Se il diritto non recupera una dimensione fattuale, la soluzione dei conflitti necessariamente passa da luoghi dove è possibile accantonare la lettura formale e astratta degli istituti giuridici per contemperare interessi in modo più flessibile (spesso, in realtà, sempre nell’ambito di una cornice giuridica). Giudici e avvocati lo sperimentano frequentemente nella conciliazione giudiziale che spesso serve a rendere duttile il diritto, senza rinnegarlo. Ma tutti i sistemi di soluzione stragiudiziali soft, dalla mediazione e conciliazione alla negoziazione assistita, dalle forme di diritto collaborativo alle procedure partecipative, sono attraversate da un filo comune: la valorizzazione dei bisogni e degli interessi e quindi l’attenzione alle persone e ai fatti.
Le nuove strategie compositive delle liti mediante la partecipazione comportano la rinuncia a ricercare una pretesa verità oggettiva per trovare la soluzione più adeguata alla situazione concreta20. E di nuovo torna l’allarme sull’ incertezza del diritto dato il proliferare dei centri di decisione e soluzione che, come nota Rodorf, aumenta l’entropia dell’ordinamento giuridico nel suo complesso. D’altronde, occorre riconoscere che data la complessità dei sistemi sociali, l’accelerarsi del ricambio normativo, l’intreccio di fonti nazionali e sovranazionali, di fatto la certezza e la sistematicità sono già compromesse21, che ci piaccia o no. Molti insorgono contro la c.d. degiurisdizionalizzazione, ma dobbiamo riconoscere che questa è già avvenuta anche se si camuffa in modi svariati. La distribuzione delle cause civili in Italia tra giudici togati e onorari avviene in base a criteri del tutto eterogenei e risponde a criteri che appaiono casuali: in certi tribunali la magistratura onoraria governa interi ruoli, con cause di valore elevato, però l’apparato è formalmente intatto; perché mette meno paura questa sottile sottrazione alla giurisdizione di ingenti parti di contenzioso rispetto alla scelta trasparente di assegnare certi settori alla giustizia di prossimità in base a criteri obiettivi definiti ex ante? Oggi i giudici onorari di tribunale in certe sedi trattano cause di valore elevato (oltre 50.000 euro), però i Giudici di pace sono competenti senza limiti di valore se il danno è chiesto in sede penale; con il limite di 5000 euro (o 20.000 per casi di circolazione di veicoli e natanti), se è chiesto in sede civile. Questa è entropia dell’ordinamento.
La giurisprudenza difensiva e la valorizzazione di decisioni in rito che permettono l’eliminazione di procedimenti sotto la scure dell’inammissibilità, della mancanza di forme prescritte (fomentate dall’avvio del processo telematico), delle tagliole di improcedibilità, non sono in qualche modo fughe dalla giurisdizione? Non è sottrazione subdola alla magistratura del suo compito di pervenire ad una decisione nel merito? Non è degiurisdizionalizzazione cattiva l’aumento del contributo unificato? Queste sono tecniche di respingimento, come è stato detto22, è una de-giurisdizionalizzazione cattiva, non trasparente. Ed è degiurisdizionalizzazione cattiva l’uso distorto dei sistemi di a.d.r. utilizzati per sgombrare la scrivania del giudice.
Chi difende la giurisdizione così come è non è amico della giurisdizione, a mio parere.
Il compito immane che le è stato addossato oggi, non solo di dire il diritto e dirlo in una situazione di complessità straordinaria, ma di riparare, proteggere, restaurare, valutare, amministrare, conciliare, la paralizza.
Allora, come già sottolineavamo l’anno passato23, oggi occorre rifondare la giurisdizione civile, quale baluardo dei diritti fondamentali; occorre ridefinirne il perimetro intorno alle situazioni più delicate e complesse, specie nelle relazioni dove si registrano rapporti di forza asimmetrici o vi siano soggetti più deboli o si discuta di temi bio-etici, e sia in gioco la dignità delle persone24; nello stesso tempo occorre valorizzare modi diversi dalla giurisdizione per risolvere i conflitti: sono aspetti interdipendenti: dobbiamo governare in modo intelligente e selettivo la cd. de-giurisdizionalizzazione proprio per evitare che sotto tale nome non si camuffino svuotamenti di garanzie. Ridisegnare l’area della giurisdizione è l’operazione preliminare, per permettere che le risorse siano destinate a quei conflitti civili per il ricorso al giudice è adeguato e deve essere garantito nella sua pienezza.
Non si tratta dunque di esportare il contenzioso civile in un’altra sede qualsiasi, ma di realizzare una pluralità di metodi di soluzione adatti a seconda del tipo di conflitto, con cui la giurisdizione possa anche dialogare. Già nel 1942 Norberto Bobbio scriveva che statalismo e legalismo erano i caposaldi di un edificio ottocentesco in rovina25 e, trascorsi più di 70 anni, è ormai chiara la crisi del monopolio statuale della regolamentazione del processo e della stessa giurisdizione26 .
Una riflessione serena per cercare di decifrare i cambiamenti deve partire dalla consapevolezza del carattere relativo dei sistemi di composizione dei conflitti27. All’inizio del XXI secolo, dobbiamo aprirci alla ius-diversità, riconoscendo che il cambiamento, che tanto invochiamo, produce diversità.
Di fronte al proliferare di microsistemi diversificati e autonomi di soluzione, i pericoli possono nascere solo dall’eventuale loro uso improprio, che si può contrastare con la riflessione e la formazione. Compito degli Osservatori è partecipare all’opera di riordino e prima ancora di ricognizione e distinzione tra i vari sistemi: quelli di tipo arbitrale, rispetto a quelli conciliativi, negoziali, o di tipo collaborativo e partecipativo, favorendo buone prassi e l’esportazione dei modelli giusti nei settori giusti. Si tratta di un campo dove spesso si percepisce, dichiarato o meno, un pregiudizio di fondo e la svalutazione che parte dal pregiudizio. Gli Osservatori devono costituire un luogo di superamento del pregiudizio perché si alimentano della discussione tra varie categorie coinvolte. Si tratta di strumenti diversi e occorre conoscerli per usarli bene, eventualmente provando ad immaginare degli snodi di raccordo tra di essi.
Secondo il metodo Osservatori, occorre sperimentarli, per evidenziarne efficacia, aspetti negativi, ma anche potenzialità al fine di assicurare alle persone un ventaglio di tutele differenti, adeguate al tipo di conflitto e di contesto. Ci sono forme non giurisdizionali di settore, di cui poco ci occupiamo ma che risolvono conflitti in settori con litigiosità diffusa o altamente tecnica, ad esempio le procedure Corecom, l’arbitro bancario finanziario di Banca d’Italia, l’ombudsman delle regioni o altre iniziative a livello regionale.
Potremmo anche imparare qualcosa, ad esempio che l’efficacia può prescindere dalla cosa giudicata (art. 2909 cc) e dall’esecuzione forzata. Ha avuto risonanza la tesi di Consolo e Stella 28 secondo cui i collegi di ABF sono chiamati a svolgere una valutazione di tipo prognostico sul verosimile esito finale di una lite ancora in pectore tra cliente intermediario, qualora il giudice ordinario ne fosse investito. Questa giurisprudenza pre-cognitrice, non vincolante, fornisce alle parti una prognosi tecnicamente molto qualificata, rapida e poco costosa, circa l’esito di una possibile causa giudiziaria: il meccanismo di sanzione reputazionale, consistente nella pubblicazione su apposito bollettino dell’eventuale inadempimento delle banche e dei soggetti vigilati è ovviamente legato alla disciplina del settore bancario: tuttavia, come nota Rodorf, si potrebbe esaminare l’opportunità di riproduzione in analoghi settori, amministrati da autorità di vigilanza come quello delle assicurazioni29 .

4. Mediazione effettiva o mediazione vera?

Un rilievo a parte, a proposito di effettività, merita uno dei sistemi di soluzione dei conflitti di cui più si è parlato negli ultimi tempi: la mediazione. Dal marzo 2014 si sono susseguite numerose ordinanze dei giudici in tema di mediazione demandata ex art. 5, II co. d.lgs. n.28/2010, che hanno imposto lo svolgimento effettivo della mediazione, non accontentandosi della mera ricezione dell’attestato del mediatore circa la mancanza di volontà delle parti di procedere con la mediazione30. A questo proposito, tuttavia, non dovremmo scomodare il criterio di effettività: mediazione effettiva qui sta per mediazione tout court, perché la mediazione non è la sessione informativa e non è l’incontro tra il mediatore e gli avvocati. La natura della mediazione richiede la presenza delle parti, per permettere l’indispensabile interazione tra queste e il mediatore, al fine di riaprire un dialogo tra le persone e riattivare una comunicazione interrotta: di qui l’importanza della percezione delle emozioni nei conflitti: occorre “riconoscerle, denominarle, padroneggiarle, entrare in risonanza con il mondo dell’altro”. Si tratta di aspetti relazionali che sicuramente riguardano anche i rapporti tra avvocati e clienti, tra avvocati e giudice, avvocati e mediatore; ma la mediazione si fonda sull’empatia (dal greco en e patheo, ossia “dentro” e “sentire”) e questa impone un contatto tra il mediatore e le persone parti del conflitto. Il mediatore deve comprendere quali siano i bisogni, gli interessi, i sentimenti dei soggetti coinvolti, e questi sono profili che le parti possono e debbono mostrare con immediatezza, senza il filtro dei difensori31. La mediazione per essere vera non solo deve svolgersi con le parti, ma deve svolgersi davvero. L’altra affermazione importante dell’orientamento giurisprudenziale ricordato, si riferisce alla necessità che la mediazione demandata dal giudice sia effettivamente svolta: i difensori e le parti non possono limitarsi a presentarsi dinanzi al mediatore solo per ricevere informazioni e manifestare l’indisponibilità a proseguire con la mediazione. Le ordinanze mirano quindi a rendere la mediazione reale, più che effettiva.
I giuristi si sono impadroniti della mediazione con i loro strumenti e il loro linguaggio tipico; si è persa di vista l’essenza di questo metodo. Dalla sperimentazione della mediazione demandata emerge proprio questo: il pericolo di ridurre a procedura la mediazione, fare del mediatore un ausiliario, se non un clone del giudice, di concepire la mediazione come giustizia di serie B che serve a deflazionare quella di serie A. In una fase storica dove giustizia è ancora sinonimo di processo, il giudice e gli avvocati possono fare la loro parte, contrastare questa percezione errata e orientare una cultura a favore della corretta coesistenza di modi diversi di soluzione, diversificati non per importanza del conflitto o delle parti, ma semplicemente per la diversa duttilità dei metodi. Oggi più che esatte interpretazioni occorrono buone prassi per l’impiego corretto della mediazione e per scoraggiare prassi deteriori: il giudice che fa uso indiscriminato della mediazione demandata svilisce la mediazione, ma anche il ruolo della giurisdizione.
La mediazione non ha uno scopo deflativo, la sua ragion d’essere è altra, anche se può avere un effetto indiretto di deflazione dal momento che attualmente si incanalano nella giurisdizione le più disparate conflittualità. Promuovere sistemi di mediazione dei conflitti ha dunque un effetto benefico indiretto, perché incide sul governo della domanda di giustizia, aspetto che è di cruciale importanza per un sistema, quello giudiziario, dove l’input è ingovernabile. Per un impiego corretto della mediazione occorre partire dall’idea che non sia la soluzione per decongestionare la giustizia civile (di cui pure abbiamo un grande bisogno), oppure un nuovo settore nel mercato dei servizi, ma la ricerca di una nuova centratura della giustizia: mettere al centro le persone, i cittadini, per far crescere la cultura della conciliazione, della ricostruzione dei legami comunitari e della regolazione pacifica dei rapporti sociali. Proprio questa nuova centratura, però, se da un lato esclude sanzioni e minacce dall’altro impone di prendere la mediazione sul serio: solo un tentativo vero, alla presenza delle parti oltre che dei difensori, costituisce una seria possibilità offerta alle persone ed è rispettoso di una ricostruzione teleologica del sistema normativo. Inoltre, ed è questione della massima importanza, solo se si affermerà la necessità della presenza effettiva delle parti in mediazione e dello svolgimento di un tentativo effettivo avrà senso monitorare l’efficacia della mediazione. Altrimenti ogni monitoraggio sarà privo di significato perché effettuato non sulla mediazione, ma su una sua parodia32.

 

5. Effettività della giurisdizione: risorse e dialogo processuale.

Sarebbe un errore di prospettiva quello, diffuso, di ritenere che potenziando i sistemi a-giurisdizionali si favorisca il funzionamento del processo civile. E’ invece vero il contrario: il buon equilibrio si raggiunge se la giurisdizione è celere e di qualità. C’è dunque un problema di effettività anche della giurisdizione.
Venti anni di lavoro in un cantiere di riforme processuali sempre aperto e senza progetto hanno dimostrato che oggi l’effettività della giurisdizione non dipende dalle norme processuali.
Dipende, invece, oltre che dalla radicale ridefinizione del suo perimetro di intervento – di cui si è detto -, dal ripensamento della sua struttura organizzativa e dalle risorse: l’ufficio per il processo le catalizza tutte.

5.1 L’ufficio per il processo.

Di recente abbiamo registrato una novità: l’ufficio per il processo, invocato nel documento finale dell’ assemblea di Rimini del 2014, è previsto per la prima volta sul piano normativo dall’art. 50 del d.l. 90/2014, che introduce l’ art. 16-octies nel d.l. n. 179/201233. L’art. 16 octies suscita sentimenti ambivalenti: da un lato il riconoscimento sembra una vittoria; dall’altro, per ora la pomposa dichiarazione ”sono costituite strutture organizzative denominate ‘ufficio per il processo” sembra ancora un’ etichetta vuota. E’ lì però che si annida il grimaldello della trasformazione perché l’ufficio per il processo è il seme del nuovo modo di lavorare del giudice, dell’avvocato, del funzionario del XXI secolo, un modo collettivo che è reso indispensabile proprio dalla complessità del compito che attende giudici e avvocati nel nuovo sistema delle fonti.
Certamente i tirocinanti hanno esigenze formative che vanno soddisfatte perché lo stage costituisce un titolo per l’accesso al concorso in magistratura, e quindi, vista la durata di 18 mesi, deve anche fornire gli strumenti per poterlo affrontare. Il Gruppo di lavoro potrà sviscerare le criticità (a partire dall’incertezza del riconoscimento ai fini della pratica forense) e le esigenze quali la flessibilità, la rotazione, la formazione affidata alle strutture decentrate della Scuola Superiore della Magistratura; un’occasione di formazione è data anche dalla partecipazione degli stagisti alle riunioni di sezione ex art. 47 quater sugli orientamenti giurisprudenziali; una formazione moderna deve arricchirsi della formazione sui temi dei metodi a.d.r. e in particolare della mediazione: una tale scelta – sperimentata a Firenze – può offrire ai giudici affiancati l’ausilio per l’esame del contenzioso non solo dal punto lo di vista strettamente tecnico-giuridico, ma anche sotto il profilo della mediabilità del conflitto, in vista dell’invio in mediazione ex art. 5, II co. d.lgs. n. 28/2010.
Se da un lato occorre rispondere alle esigenze dei tirocinanti, dall’altro occorre anche rivendicare una vera assistenza caratterizzata da stabilità (tre,quattro anni) e continuità: sarebbe non solo un errore, ma anche un’ingiustizia, schiacciare il ruolo degli stagisti solo su questa funzione, fondamentale per gli uffici. Mettere a fuoco le esigenze dei tirocinanti e le caratteristiche del loro inserimento nell’ufficio per il processo serve anche a mettere a fuoco le esigenze del giudice o meglio ‘del processo’, che ha bisogno di assistenti stabili e pagati. La retribuzione rende il ruolo dell’assistente dignitoso e efficace34. L’esperienza ha mostrato come proprio lo stagista, dopo aver svolto un periodo formativo di 18 mesi all’interno di un ufficio giudiziario, potrebbe essere una figura ideale per ricoprire il ruolo dell’ “assistente del giudice”, avendo maturato già un’ esperienza tale da garantire un effettivo e concreto aiuto al giudice, contribuendo allo studio di fascicoli, all’attività di ricerca e alla redazione di atti.
La necessità dell’equipe del processo va collegata ai ”compiti improbi che oggi spettano agli interpreti alla soglia del caso concreto”35 perché consente il raccordo di tutti i fattori che permettono una trattazione concentrata ed effettiva: le banche dati dei provvedimenti più rilevanti della sezione; la programmazione delle cause secondo il criterio cronologico e qualitativo prescelto nei programmi ex art. 37 dl 98/2011; il raccordo tra atti difensivi e provvedimenti e la semplificazione dei moduli trattazione e decisione. L’equipe, in altri termini, permette di applicare le soluzioni organizzative e applicative dei protocolli d’udienza, che costituiscono spesso un richiamo a norme del codice di rito, rimaste sulla carta perché non sostenute da un movimento culturale adeguato. Solo un ufficio del giudice così strutturato potrà offrire ai tirocinanti una formazione sul campo di qualità, non disperdendo l’eredità più preziosa dell’esperienza degli stages e cioè l’occasione di formazione preliminare comune dei futuri magistrati, avvocati e mediatori: i tirocinanti esamineranno il contenzioso con nuovi occhi, attenti alle questioni giuridiche ma anche ai fatti, per verificare dove può utilmente svolgersi l’invito del giudice alla mediazione. La formazione dei tirocinanti, demandata alle Strutture territoriali della Scuola Superiore della Magistratura, dovrà ben tener conto di questa nuova prospettiva.
La creazione di un gruppo di lavoro permette inoltre di compensare la mancanza di collegialità – per la maggior parte delle cause – del giudice civile, attraverso pratiche collettive di coordinamento e discussione che trovano nella sezione il luogo d’elezione: le riunioni ex art. 47 quater ord. giud. vanno dunque estese all’equipe che lavora insieme al giudice e possono diventare occasione di apertura e collegialità indiretta, ad esempio, con la partecipazione di giudici che si occupano di materie diverse, ma connesse. Inoltre, occorre riconoscere che oggi l’interpretazione non è più monopolio del giudice e va condivisa con altri saperi: le riunioni potrebbero essere aperte ad esperti specialistici (medici legali, professori universitari) che possano dare il loro contributo in forme diverse dalla tradizionale consulenza tecnica: insomma, occorre mitigare la solitudine del giudice civile.
Ritengo che la nuova figura di assistente, stabile e retribuito, sia destinata nel tempo ad assorbire e superare l’attuale ruolo del giudice onorario di tribunale così come configurata attualmente: utilizzati come l’ultima salvezza, spesso all’infuori di progetti che non siano motivati dalla pura emergenza e omogenei nelle varie sedi, retribuiti ad udienza, malamente e con criteri slegati alle funzioni attualmente svolte, i giudici onorari sono costituiti da figure del tutto disomogenee (ci sono professionisti che vengono da luoghi lontani dove mantengono uno studio professionale e professionisti che hanno scelto l’impegno del g.o.t. ‘a tempo pieno’), con disponibilità variegata, e soprattutto non stabile, dal momento che può cessare da un momento all’altro. A moltissimi di loro dobbiamo la tenuta del sistema, tuttavia lo scenario del futuro esige il nuovo: l’uscita dalla precarietà e dall’instabilità36.
Nell’Ufficio del processo, infine, l’art. 50 del d.l. 90/2014 ha previsto l’ inserimento tout court del personale amministrativo.Tale inserimento non è legato a nessun reale cambiamento che potrà venire solo dall’aumento degli organici (insufficiente e problematica la mobilità volontaria del personale proveniente dalla provincia) e soprattutto dalla radicale revisione dei compiti attuali di cancelleria, alla luce del processo telematico: processo telematico e ufficio per il processo sono strettamente connessi, perché sono tutte risorse che devono coordinarsi per lo stesso scopo (un processo celere e giusto). Non si può intervenire su una risorsa (tecnologia) senza intervenire con coerenza sulle altre37. L’impiego della telematica non coinvolge solo aspetti molto tecnici, ma comporta un ripensamento delle relazioni tra gli attori del processo. La tecnologia offre vantaggi indiscutibili, ma deve essere governata per realizzare le trasformazioni che davvero scegliamo come obiettivo poiché permette passi avanti, ma anche passi indietro: il vademecum sul p.c.t. di un grande tribunale italiano prevede che gli avvocati possano dettare le loro deduzioni mediante una seconda tastiera da usare in udienza Ma questa potrebbe essere solo una versione attualizzata delle prassi deteriori ben note: l’avvocato che verbalizza appoggiandosi alle spalle dell’avvocato avversario, senza effettivo controllo e direzione da parte del giudice. Quale modello di processo vogliamo? Se è tempo di un bilancio decennale, credo che si debba mettere un punto fermo, espresso già nella denominazione scelta per i Gruppi di lavoro: ufficio per il processo e processo telematico – ancora più esplicitamente – sono connessi al dialogo processuale che già alla prima assemblea del 2006 costituiva il fil rouge dei temi in discussione perché, scrivevamo, << … fonda l’intera conduzione del processo secondo le modalità indicate nelle regole di protocollo, costituisce la radice della ricerca di una soluzione conciliativa e della progressiva costruzione della decisione, è alla base delle scelte organizzative – indicate nell’agenda per il processo – concertate tra tutti i soggetti coinvolti.>>

5.2 Dialogo processuale e anticipazione del giudizio.

E’ giusto chiedersi allora dove ci ha portato la pratica collaborativa avviata con i protocolli di udienza. La domanda si impone perché Ufficio per il processo e processo telematico sono il banco di prova dell’humus culturale che gli Osservatori hanno cercato di creare negli ultimi anni. Strumenti a servizio di due modelli opposti: un processo essenzialmente scritto, dove poco si parla e molto si scrive e si legge; e un modello in cui resta centrale il dialogo processuale tra giudice e parti nella fase preparatoria del procedimento: questa è la fase che ci interessa, la fase-setaccio dove si filtra ciò che deve proseguire e si decide come deve proseguire. La risposta alla domanda potrebbe essere questa: ci ha portato a vedere nella decisione non più l’atto finale, ma un percorso collaborativo costruito attraverso una serie di discussioni che permettono il superamento di questioni senza decisione, oppure danno vita a <> (sulle questioni preliminari o pregiudiziali, sulle istanze di chiamata dei terzi, sulle istanze di prova, ecc.): in ognuna di queste discussioni e decisioni il giudice prospetta la sua opinione, allo stato delle risultanze probatorie, consentendo alle parti di essere consapevoli del conflitto e delle possibilità di soluzione tramite la propria autonomia38 e costruendo progressivamente l’ eventuale decisione. Già nel 2006 affermammo il superamento del mito della cd ”anticipazione del giudizio”: <> ; oggi aggiungiamo anche della proposta conciliativa ex art. 185 bis cpc, e dell’invio in mediazione. La chance di un uso corretto dell’istituto infatti resta fondato non sull’imposizione immotivata, ma sulla persuasione delle parti, veicolata dalla specifica motivazione del provvedimento39 e dal colloquio processuale altrimenti la mediazione sarà svilita ad un incombente vissuto dalle parti come un’ inutile dilazione del percorso giudiziario da loro scelto. Dalla progressiva costruzione della decisione dell’Assemblea del 2006 stiamo passando alla costruzione progressiva della soluzione del conflitto, secondo metodi che aiutano le parti a costruire la propria decisione.
Interessante al riguardo è una recente ricerca canadese su << Le sentiment d’accèss à la justice et la conférence de règlement à l’amiable>> , svolta con la collaborazione della Corte Superiore del Quebec e alla Corte del Quebec nonché degli Avvocati (Barreaux de section)40 da cui emerge che la qualità della giustizia dipende, secondo i cittadini, da una cultura della cooperazione, dal rispetto, dalla creatività, tutte qualità non presenti nella cultura avversariale del processo giudiziario tradizionale.
Ancora oggi, tuttavia, serpeggia qua e là una resistenza rispetto ad un franco colloquio processuale, legata soprattutto al rifiuto di conoscere il pensiero del giudice.
Perché? Non certo per il timore della parzialità perché i giudici parziali sono assolutamente muti. L’esposizione del pensiero del giudice consente invece ai difensori di argomentare, persuadere, convincere. E’ una garanzia. E allora? Provo ad avanzare una ipotesi, tutta da verificare: il dialogo processuale coinvolge l’avvocatura nell’attività di interpretazione con-creatrice della norma, in quella interpretazione integratrice che nessuno ormai disconosce: la norma viene creata insieme dal giudice e dall’avvocato (dove creare vuol dire riordinare, non inventare). Allora è possibile che l’avvocatura si ritiri rispetto a questa richiesta di partecipazione ? E’ possibile che il giudice a sua volta preferisca non confrontarsi in questa attività ermeneutica così complessa? Tanto complessa che Dworkin, in un noto saggio, paragone il suo sforzo a quello di Ercole?41E’ possibile; eppure, per il cammino fatto da dieci anni a questa parte dovremmo oggi inserirlo nel nostro bilancio e comunque lo inserisco in quello preventivo: giudici e avvocati garanti della trasparenza del percorso processuale sin dall’inizio, fino all’esperienza delle c.d. sentenze concordate. Valorizzare la valutazione prognostica della decisione della lite non deve scandalizzarci: cosa rappresenta il modello ex art. 380 bis cpc se non un modello di giurisprudenza pre-cognitrice? 42

 

6. L’udienza davvero civile: un luogo in cui si parla e si ascolta.

Altra voce forte del nostro bilancio è dunque il rilancio dell’udienza civile come luogo in cui non si discute solo di questioni giuridiche, ma si scava nei fatti; e come luogo dove devono tornare le persone.
Occorre che giudice e difensori “scavino nei fatti” e questo comporta una modificazione del modo tradizionale di affrontare le liti civili: di solito, i giuristi tendono a privilegiare gli aspetti in diritto, la c.d. fattispecie, i problemi di qualificazione. Sono tutte operazioni utili e indispensabili, ma oggi non bastano.
Se vogliamo scandagliare le possibilità di interpretazione dell’indirizzo che abbiamo chiamato materializzante, quello che scende a verificare gli interessi delle parti (ad. es. nell’interpretazione della clausola generale di buona fede), devo analizzare i fatti. E ancora, ad esempio, per verificare se la controversia debba essere inviata in mediazione, il diritto ci dice poco: qualcosa, ma non tutto. È la realtà fattuale quella dove si annida l’interesse della parte, la relazione entrata in crisi e le vere ragioni del contendere.
La riscoperta della fattualità del diritto, è quella che permette il riavvicinamento tra diritto e giustizia : «Il castello murato edificato con tanta cura dai nostri padri, con le mura impastate e cementate di legalismo e formalismo, allontanò diritto e fatti, ma anche inevitabilmente, diritto e giustizia, essendo – questa – misura di uomini carnali e di fatti carnali; e la giustizia è restata un traguardo irraggiunto. Se i giuristi, all’insegna di un’etica della responsabilità, sapranno ordinare il nuovo pluralismo, forse stiamo procedendo sul cammino più conveniente per una maggiore armonizzazione fra diritto e giustizia»43.
La vicinanza alle persone rende i professionisti particolarmente vocati (specie gli ad-vocati) al ruolo di rilevatori della dimensione fattuale (Grossi aggiungerebbe: “carnale”), del diritto. La responsabilità sociale della professione forense [già enunciata nel codice deontologico europeo sin dal 1988 e nelle Linee Guida del CCBE (Consiglio degli ordini forensi europei) del 2002], è legata a questa opera di scavo nei fatti umani e sociali: sono gli avvocati che per primi selezionano i casi, indagano, prospettano soluzioni dentro e fuori delle corti affinché si innalzi il livello di tutela dei diritti e dei bisogni. Il contatto dell’avvocato con il mondo plurale dei sistemi per risolvere le liti dovrebbe essere segnato da questa prospettiva, sia come assistente della parte in giudizio, nel processo e nello snodo che può far deviare il processo verso la mediazione, sia come mediatore, sia come avvocato che assiste la parte dinanzi al mediatore. Il giudice conosce i fatti attraverso filtri: il colloquio processuale con gli avvocati o l’interrogatorio libero delle parti, che però, per quanto libero, non avrà mai quei profili di riservatezza e di affidamento che ha il contatto tra difensore e parte.Il ruolo dell’avvocato è un ruolo protagonista perché è lui che potrà favorire la ricerca del giudice, gravemente compromessa se si ferma alle difese scritte.
Il colloquio processuale di cui abbiamo parlato prima è insomma il grimaldello per aprire la porta che conduce dalla norma astratta ai fatti concreti. E’ evidente che questo è particolarmente indispensabile per i giudici delle relazioni familiari44, relazioni a cui è dedicato un Gruppo odierno (le norme che pongono l’interesse del minore al centro dei procedimenti sulla responsabilità genitoriale impongono la ricerca di tutti gli aspetti di fatto che appaiono rilevanti per il benessere dei figli minori: nel recente decreto del Tribunale di Palermo del 13.4.201545 la figura del genitore sociale è individuata in quel soggetto che ha instaurato con il minore un legame familiare de facto significativo e duraturo: si va a verificare cosa avviene nella realtà ). Tuttavia, per il discorso sin qui condotto, questo vale anche per il giudice ordinario che si occupa di obbligazioni e contratti: anche lui è prima di tutto un giudice delle relazioni, non un burocrate lontano dalle parti, un liquidatore di conflitti; ha conquistato margini di prossimità rispetto alle parti: è consapevole che rendere giustizia non significa solo porre fine a un conflitto, in maniera formalmente corretta, ma occorre tener conto dei bisogni, degli interessi delle parti, rispettando il loro diritto all’autodeterminazione. Chi meglio delle parti conosce i propri interessi, i motivi del conflitto, le possibilità di cooperazione? Il giudice e i difensori possono però promuovere la consapevolezza delle parti sui profili di crisi della relazione e della cooperazione, possono spiegare le ragioni di una scelta, i rischi della decisione, le prospettive: su questo ruolo, che giudice e avvocati dovrebbero giocare in sinergia, nel rispetto delle diverse funzioni, si innestano le possibili combinazioni in cui il percorso processuale si intreccia con la conciliazione giudiziale, proposta del giudice e invio in mediazione.
Solo se parti non riescono a trovare un accordo (attraverso il tentativo di conciliazione giudiziale o la mediazione demandata) dovrà ri-espandersi pienamente e prontamente il potere decisionale, senza inutili e imposte trattative sui punti che le parti non vogliono o non possono mediare; e anche qui il giudice promuove la costruzione del giudizio o la ricerca dell’accordo attraverso la partecipazione, in modo dialettico e maiueutico.
Il mutamento più forte riguarda il ruolo dell’avvocato, non più ancorato al settore giudiziario e chiamato ad essere prima di tutto professionista della prevenzione, costruttore di relazioni che possano funzionare tra le parti; e poi, professionista capace di associare al conflitto il suo rimedio, sempre più promotore di una giustizia anche senza processo. E’ richiesto un cambiamento culturale difficile, tanto che la formazione degli avvocati, mediatori di diritto, dovrebbe essere particolarmente curata sotto il profilo della mediazione: questa presuppone di ridare la parola alle parti, mentre il sistema giudiziario è un sistema che disattiva le parti, magari a fini protettivi. Il ruolo tradizionale di giudici e avvocati porta a togliere la parola alle parti: se la logica è puramente tecnico-giuridica, quello che le parti dicono o vorrebbero dire può essere d’intralcio. Oggi però il panorama è – o dovrebbe essere – completamente rovesciato: le persone non sono soggetti incapaci di gestire i propri conflitti, ma sono proprio loro che, per prime, dovrebbero essere in grado di riconoscere, leggere i conflitti in cui sono coinvolte.
Le persone vanno dunque rimesse al centro della giustizia: sicuramente in quella mite rappresentata dalla mediazione, dove si valorizza la capacità delle parti di essere autrici del percorso di soluzione del conflitto. Ma questo vale anche per il processo e a maggior ragione per quegli snodi di diritto partecipativo o collaborativo che possono intersecarlo: quanto più inserti di questo tipo contaminano il processo, tanto più la decisione non sarà una spada che cade sul passato, ma una parola che può aprire verso il futuro.
Oggi siamo alla ricerca di un contatto tra città e palazzo di giustizia e a questo riguardo sentiremo domani della bella esperienza di Civitas di Reggio Calabria46; ma non dimentichiamo che è l’udienza il primo luogo di costruzione della fiducia47 e della trasparenza: la ricerca canadese citata in precedenza evidenzia l’importanza per le parti di essere coinvolte, sentirsi considerate ai fini del sentimento di accesso alla giustizia (SAJ) .
La presenza delle parti di persona, connessa alla riscoperta della fattualità del diritto, rende effettiva non solo la mediazione, ma anche la giurisdizione e sana quel distacco tra parti e giudice che si è incrementato con la eliminazione del tentativo obbligatorio di conciliazione.
Un tempo ho scritto un articolo sulla novella del 2005 immaginando il processo come la raggiera di una ruota di bicicletta48 : il centro rappresenta l’incontro tra giudice e parti e i raggi i diversi percorsi processuali, più flessibili di quello che si pensi; i conflitti non sono tutti uguali. Oggi la visuale si allarga e vedo l’icona completa con l’altra ruota della bicicletta: il centro qui è l’incontro tra la persona e il difensore e i raggi sono le vie di soluzione del conflitto che possono essere suggerite e intraprese. Allora il pedale, i.e. il conflitto, mette in moto un sistema condiviso, integrato e sostenibile di giustizia49 .

 

7. Le precondizioni materiali come base per l’effettività

L’effettività, come ci ricorda l’art. 3, II co. Cost., è irta di ostacoli economico e sociali. Richiama dunque anche un’esigenza di coerenza dell’ordinamento a cui già l’anno scorso avevamo accennato, declinando la prossimità/accessibilità in chiave finanziaria. Se oggi la tutela dei diritti e la soddisfazione degli interessi non è affidata solo alle procedure giudiziarie, perché il legislatore introduce differenti metodi, diviene un intervento indispensabile, sul piano della coerenza, ampliare l’aiuto da parte dello Stato dall’aiuto giudiziario all’aiuto giuridico ossia l’aiuto per chi ha bisogno di avere informazioni o consulenza legale o assistenza, in margine e al di fuori del processo (come nella maggior parte dei paesi europei).
Il sistema del patrocinio a spese dello Stato dovrà essere ripensato da chi detiene il potere legislativo alla luce della disciplina di origine comunitaria secondo cui il patrocinio a spese dello Stato garantisce anche << la consulenza legale nella fase conciliativa pre-contenziosa al fine di giungere a una soluzione prima di intentare un’azione legale>>50. Una differenza del trattamento delle liti interne rispetto a quelle transfrontaliere apparirebbe di dubbia costituzionalità. E già allo stato il giurista ha il potere/dovere di conformare l’interpretazione delle norme esistenti alla luce dell’evoluzione dell’ordinamento per sopperire lacune o adeguare le norme alle nuove condizioni storico-sociali. Un esempio significativo è il riconoscimento del patrocinio a spese dello Stato per i casi di mediazione obbligatoria ex lege conclusa con accordo: secondo alcuni, il quadro normativo consentirebbe il patrocinio solo se la mediazione abbia avuto esito negativo51.
La conclusione pare tuttavia paradossale e poco coerente.
La garanzia costituzionale del diritto di difesa inviolabile ‘in ogni stato e grado’ (art. 24 cost.), per essere effettiva, deve contemplare anche la fase che, pur concernendo di per sé attività non giurisdizionale per la soluzione dei conflitti, è così innestata nella giurisdizione da condizionarne le vicende: ‘in ogni stato’’ è dunque espressione che ricomprende lo stato pre-processuale o endo-processuale che in modo obbligatorio deve essere attraversato dalle parti perché la giurisdizione possa regolarmente svolgersi. Per assicurare ‘’ ai non abbienti …. i mezzi per agire e difendersi avanti ad ogni giurisdizione” , è indispensabile riconoscere a carico dello stato anche il compenso del legale nella fase mediativa che condiziona necessariamente l’avvio del processo o la sua prosecuzione.
Tale interpretazione, che si ritiene costituzionalmente orientata (anche ex art. 2 cost.) , si riconnette anche all’esigenza che la mediazione sia ‘vera’ e offra alle parti una reale chance di soluzione del loro conflitto: l’esclusione del riconoscimento delle spese per il compenso di avvocato solo per i casi di mediazione non conclusa da accordo si presterebbe invece a concepire la fase mediativa come una fase da attraversare necessariamente, ma solo formalmente, per costringere all’approdo nel processo, nell’ambito del quale anche le spese stragiudiziali potranno essere riconosciute. Sarebbe una conclusione che sminuirebbe la funzione della mediazione, ma anche della giurisdizione, che, invece, proprio per la sua natura sussidiaria, deve potersi esplicare pienamente ed efficacemente quando è richiesto lo ius dicere, anziché essere strumentalizzata per altri obiettivi. L’interpretazione adottata è inoltre l’unica che riconosce la delicata funzione di assistenza dell’avvocato della parte in mediazione, funzione che comporta un mutamento culturale epocale per l’avvocatura rispetto ai ruoli tradizionali confinati al campo giudiziario e che deve essere adeguatamente valorizzata.
Il tema dell’aiuto giuridico è cruciale per garantire le condizioni materiali per l’accesso alla giustizia di cui fa parte integrante l’accesso alle informazioni giuridiche e non solo l’accesso al tribunale, e implica il riordino e la revisione dei vari ed eterogenei sportelli gratuiti e volontari che andrebbero invece inseriti in una rete di punti di accesso convenzionata e diffusa, compito delle amministrazioni pubbliche e dei servizi territoriali. Le risorse ci sono, anche se sprecate per rimedi riparativi (c.d. legge Pinto) e non per investimenti in misure con efficacia preventiva.

 

8. Il diritto riflessivo.

L’effettività è anche il frutto di una maggiore vicinanza tra società e diritto. A questo proposito è interessante la ricerca del filosofo tedesco Gunther Teubner sul diritto riflessivo52, una ricerca che parte dalla constatazione della regulatory crisis, ossia dell’incapacità del diritto a leggere, interpretare e regolare i conflitti.
La crisi del diritto nasce dall’inadeguatezza ad affrontare la complessità sociale e regolare ogni comportamento e conflitto.
Il diritto deve fungere da cornice regolativa, rinunciare allo spasmodico tentativo di intervenire sempre dall’alto direttamente, ma deve farsi specchio, ritrovare la sua identità attraverso l’osservazione, la riflessione e la comunicazione reciproca con i sistemi sociali.
Riflessività del diritto vuol dire recuperare l’aspetto pragmatico e sociale affinché il diritto, con la sua ragionevolezza, possa presentarsi come specchio sociale e non come un apparato burocratico creato da funzionari specializzati o da organi politici con interventi dettati dal caso o dall’emergenza. Il diritto riflessivo promuove l’autoregolamentazione attraverso la condivisione di procedure e la partecipazione ai processi di produzione e decisione del diritto. Allora il soggetto può riconoscersi nel diritto, praticarlo e rispettarlo.53
Un pensiero che, mi pare, possa riguardare anche la giurisdizione: la categoria della riflessività in tal caso indica che se la giurisdizione riflette la società, la conosce, allora a sua volta la società riflette e conosce la giurisdizione. Questo presuppone un’organizzazione giudiziaria comprensibile, semplificata nei riti e nelle competenze: non solo il diritto, ma anche la giurisdizione deve entrare in comunicazione con i sistemi sociali, per rendere trasparente l’attività dei giudici, le politiche giudiziarie avviate, permettere l’informazione e la formazione reciproca.
La riflessività in realtà è alla base di tutte le pratiche partecipative e cooperative e in generale dei modi amichevoli di soluzione delle liti dove le persone decidono di osservare le regole non per timore di eventuali sanzioni, ma perché avendo preso parte ai momenti formativi, riconoscono in esse quei valori che costituiscono la loro essenza ed identità .
Per concludere, penso che la riflessione della e sulla giustizia debba permeare le nostre Scuole di giurisprudenza, che non possono più insegnare solo diritto; e ancor prima, tutto il mondo dell’educazione. Occorre ripensare la pratica educativa: l’educazione alla legalità è prima ancora l’educazione alla responsabilità, affinché sin da ragazzi si possano trovare, riconoscere, creare le regole attraverso l’esperienza concreta delle relazioni umane. Perché il giusto e l’ingiusto si decidono sempre nel rapporto con l’altro.
Gli Osservatori lavorano nei Gruppi di studio con riferimento ad un quadro di leggi, di regole, di precedenti e di prassi: la posta in gioco però non è più la semplice gestione del processo civile, ma la rifondazione della giustizia nelle sue facce molteplici, impositiva e amichevole.
Non mi pare allora estraneo a questo nostro lavoro e a questo nostro bilancio decennale lasciare sullo sfondo il pensiero di un grande filosofo, Jean-Luc Nancy: la legge, la regola (e aggiungo: la prassi), cambia, si evolve. La giustizia resta sempre da attuare. L’inizio della giustizia è scoprire che non si è mai sufficientemente giusti; e l’idea secondo cui ciascuno ha in sé, potremmo dire che ciascuno è, di per sé, un luogo di giustizia, un luogo in cui deve essere resa giustizia54.
I tempi sono difficili, ma interessanti. E allora, nonostante le difficoltà, vorrei chiudere con una frase con cui Kierkegard aveva concluso una lettera a Jette: occorre continuare a camminare e allora andrà tutto bene.
Buona strada e Buona Assemblea a noi tutti.